Nella sua “lista rossa”, l’Iucn (Unione internazionale per la conservazione della natura) classifica infatti i ghepardi come “vulnerabili”, con due sottospecie – asiatica e nordafricana – considerate “in pericolo critico”, vale a dire con un declino superiore all’80% in 10 anni o in tre generazioni.
I ghepardi, un tempo diffusi in quasi tutta l’Africa e gran parte dell’Asia, nel secolo scorso sono passati da 100.000 a meno di 7.500 individui.
In cento anni ne abbiamo persi circa il 90%, tanto che oggi sono estinti in più di 20 Paesi dov’erano autoctoni e in tutta l’Asia, fatta eccezione per una piccola popolazione di meno di 50 individui in Iran.
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Quali sono le cause?
Come per tutti i grandi felini, anche per il ghepardo è il conflitto con l’uomo la principale minaccia alla sua sopravvivenza. Ogni individuo ha bisogno di circa un ettaro di terreno per cacciare e riprodursi ed è quindi costretto a spingersi oltre il limite protetto dei parchi.
In questi territori deve competere per il cibo con un elevato numero di altri predatori, come leoni, leopardi e iene, uscendone perdente a causa della sua minore forza fisica.
Per l’allevatore africano, già molto povero, il bestiame rappresenta il 70% della sua fonte di reddito e la perdita di un solo capo è un grave danno.
Pertanto, quando il fattore vede un predatore, vede un nemico da abbattere.
È così che tra il 1980 e il 1990, in Namibia, sono stati uccisi 10.000 ghepardi. E come se non bastasse, nei decenni precedenti, tra gli anni ‘60 e ‘70, la loro ruvida pelliccia era così apprezzata dai mercati occidentali che i soli Stati Uniti importavano una media di 3.000 pelli l’anno.
Ma per fortuna questo trend è ora in diminuzione. In compenso, la frammentazione dei territori, e quindi delle popolazioni di ghepardi (20 delle 31 esistenti hanno meno di 100 esemplari), sta condannando la diversità genetica degli individui, che stringono gradi di parentela sempre più prossimi.
I ghepardi sono tutti geneticamente simili e le ricerche condotte rivelano che le alterazioni genetiche riguardano oltre il 70% del loro sperma, con conseguente maggior suscettibilità alle malattie e minor capacità di adattamento all’ambiente.
Ancora più preoccupante, se possibile, è il mercato nero dei cuccioli, con 300 piccoli di ghepardo strappati alle madri ogni anno, immessi nelle rotte dei traffici illeciti dal nord-est dell’Africa verso i Paesi del Golfo Persico (Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi).
Qui un cucciolo può valere sino a 10.000 dollari. Per la sua docilità rispetto agli altri grandi felidi, viene cresciuto in cattività nelle case di ricchi possidenti come animale da compagnia, sfruttandone la velocità a fini venatori oppure come simbolo di eleganza e potere.
Ma si tratta di animali molto delicati: quelli che riescono ad arrivare vivi a destinazione (circa il 15%), conducono una vita di stress che ne dimezza le possibilità di sopravvivenza.
I ghepardi selvatici sono quindi condannati all’estinzione?
Non la pensa così la dott.ssa Marker, fondatrice e direttore esecutivo del Cheetah conservation fund (Ccf), una fondazione senza scopo di lucro che ha fondato in Namibia nel 1991 per la difesa dall’estinzione dei ghepardi e la conservazione del loro ecosistema.
Situato in un’area di 54mila ettari, è una riserva orientata alla conservazione, alla ricerca e all’educazione sui ghepardi selvatici. La loro gestione consapevole passa innanzitutto attraverso il coinvolgimento delle comunità umane, vera e propria chiave del successo del programma del Ccf.
Per ridurre l’impatto dei predatori sull’allevamento, in pochi decenni il Centro ha formato più di 8mila agricoltori africani, e ancora continua a farlo, fornendo loro competenze di base su ghepardi e mantenimento del loro habitat, ecologia e salute del bestiame allevato, tutte preziose risorse per l’economia degli indigeni e per l’intero ecosistema.
Ma la salvaguardia dei ghepardi richiede anche di pianificare la destinazione d’uso di territori molto vasti. Con la collaborazione di farmers e latifondisti Laurie ha contribuito a creare delle Conservancies, riserve in cui gli animali selvatici si muovono liberamente con il bestiame, senza recinzioni.
FONTE: La Settimana Veterinaria