Nello scorso 2013, un’indagine condotta sull’esperienza di un campione di oltre mille strutture veterinarie private aveva rivelato che, nel corso dei tre anni precedenti, il 77% di esse aveva dovuto affrontare almeno un caso di abbandono di animali.
Il 60,5% dei veterinari aveva poi adottato l’animale (il dato medio era risultato di 1,8 animali pro capite) in assenza di risposte da parte di istituzioni, associazioni o degli eventuali proprietari in merito alla possibilità di assicurare altra idonea sistemazione.
A questo fenomeno deve poi essere aggiunto quello degli animali che, dopo essere stati portati dal veterinario per la cura, non sono più ritirati dai proprietari, e anche quello dei soggetti rinvenuti bisognosi di soccorso e riferiti a strutture veterinarie private da persone che non sono i proprietari e che, per questo motivo, se ne disinteressano, obbligando la struttura a farsene completamente carico.
Un quadro desolante, che induce a mettere in dubbio la maturità culturale della società contemporanea ma anche a interrogarsi sui disposti normativi esistenti per la disciplina di queste situazioni e delle responsabilità che si creano.
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IL REATO DI ABBANDONO DI ANIMALI È CONFIGURABILE?
A tale proposito, il riferimento normativo più inerente è il reato di abbandono di animali, disciplinato dall’art. 727 Cp e in base al quale coloro che abbandonano “animali domestici o che abbiano acquisito abitudini della cattività” sono puniti con pene che comprendono l’arresto fino a un anno o l’ammenda da 1.000 a 10.000 euro.
L’ambito di applicazione di questo articolo, in linea di principio, riguarda animali per definizione individuati come totalmente dipendenti dall’uomo (domestici o comunque ormai abituati alla cattività), che risentirebbero dell’interruzione della relazione con quest’ultimo perché non sarebbero in grado si provvedere a sé stessi.
Il bene giuridico tutelato è rappresentato, dunque, dalla vita stessa e dall’incolumità dell’animale. La finalità della norma è di salvaguardarne l’integrità, tutelandolo dal rischio di non poter sopravvivere autonomamente senza l’aiuto dell’uomo.
L’abbandono si configura, dunque, quando l’animale sia “sottratto anche per mera colpa alle prestazioni idonee ad assicurarsi il rispetto delle esigenze psicofisiche specifiche di ogni animale con la conseguenza che lo stesso si trovi sprovvisto di custodia e cura ed esposto a pericolo per la sua incolumità” (Cass. Pen. Sez. III, Sent. n. 12582 del 7/2/2013).
Esiste una consolidata giurisprudenza di merito che insiste sul concetto di rispetto delle esigenze psicofisiche degli animali, considerando punibile a titolo di abbandono anche l’assenza di “sostegno psicologico” e la privazione di rapporti affettivi e sociali sia intra sia interspecifici.
L’abbandono di animali è, dunque, visto anche come un reato conseguente ai comportamenti di distacco e/o incuria che incidono sulla capacità degli animali di provare sofferenza. In pratica, si punisce la negligenza che conduce a trascuratezza, disinteresse e a una sostanziale mancanza di attenzione per la sorte degli animali stessi.
È interessante sottolineare che, sempre secondo giurisprudenza autorevole, si ha abbandono anche quando inerzia o indifferenza si riscontrino nella ricerca del proprio animale scomparso (Cass. Pen. Sez. III, Sent. n. 18892/2011).
Non è necessaria la dimostrazione della volontà di inter- rompere totalmente l’accudimento dell’animale, ma è sufficiente rilevare un’ingiustificabile omissione dell’adempimento dei doveri di custodia e cura (Cass. Pen. Sez. III, Sent. n. 5971/2012). Il reato di abbandono, infatti, è di tipo contravvenzionale.
Non si richiede che sia commesso con precisa volontà di infierire (dolo), ma è possibile punirlo a titolo di colpa.
IN CASO DI ABBANDONO DI ANIMALI QUALI RESPONSABILITÀ PER IL MEDICO VETERINARIO?
La Corte di Cassazione ha affrontato anche l’applicazione dell’art. 727 Cp ai casi in cui un animale sia affidato temporaneamente a una struttura adibita professionalmente al ricovero di animali e mai più ritirato, e i proprietari non abbiano nemmeno pagato la quota dovuta per il mantenimento e la custodia.
Tali strutture possono essere sia private sia pubbliche (canili o allevamenti). In queste situazioni, gli animali si trovano in impianti che sono inequivocabilmente deputati alla “cura e custodia” e a proteggerne l’incolumità.
Si pone, dunque, il problema di definire se possano essere considerate vincolate a garantire sicurezza e condizioni di benessere, anche in assenza di regolare retribuzione. Questa ipotesi esonererebbe il proprietario dell’animale dal rispondere del reato di abbandono.
La Corte di Cassazione penale, affrontando questi casi, si è orientata verso la negazione del reato di abbandono (cfr. Sent. n. 13338/2012). Infatti, se la struttura è adatta ad accoglierlo, in modo affidabile e professionale, l’animale non rimane “sprovvisto di custodia e cura” né “esposto a pericolo per la sua incolumità”.
Inoltre, nemmeno l’interruzione del pagamento di quanto dovuto per il mantenimento dell’animale e il mancato ritiro dello stesso al termine del periodo previsto autorizzano la struttura ad “abbandonarlo” o a “interromperne la cura e la custodia”, tanto meno a sopprimerlo (questi comportamenti, se esercitati, a loro volta costituirebbero reato).
Pertanto, in caso di mancato versamento dei pagamenti dovuti o per il mancato ritiro dell’animale, il proprietario potrà casomai essere chiamato a rispondere civilmente per inadempimento contrattuale, ma non penalmente.
Ci si chiede se, in situazioni analoghe, le strutture veterinarie possano essere equiparate a canili o allevamenti. Esse, infatti, differiscono profondamente per finalità (cura ed eventuale degenza), caratteristiche e requisiti (in linea generale sono idonee a consentire permanenze brevi, in ambiente medicalizzato).
Tuttavia, è evidente che nemmeno ai veterinari è consentito trascurare, abbandonare o abbattere gli animali che sono lasciati indefinitamente presso la loro struttura. Essi, inoltre, sono vincolati dalla deontologia professionale a dedicare la loro opera, tra le altre finalità, “alla cura delle malattie degli animali e al loro benessere”.
Pertanto, è possibile presumere che chiunque lasci un animale presso un veterinario lo faccia nella convinzione di garantirgli un luogo sicuro e un’assistenza qualificata. Viene così a mancare il presupposto dell’abbandono quale esposizione dell’animale a una condizione di impossibilità a provvedere a se stesso.
Ciò vale anche qualora ad affidare un animale al veterinario sia un “soccorritore” non proprietario, che successivamente non se ne assuma la responsabilità e non intenda pagare la prestazione professionale. Resta, però, ferma, in tali circostanze, la responsabilità civile per tale ultima forma di inadempienza, quale mancato adempimento contrattuale.
In riferimento all’obbligo di cura di un animale ferito (ad esempio, in conseguenza di un incidente stradale, laddove sussiste l’obbligo di prestare soccorso, ai sensi del nuovo Codice della strada), si dovrà valutare ogni situazione alla luce del Codice deontologico, laddove prevede il dovere di assistenza (art. 16).
Il sanitario, infatti, deve “prestare le prime cure agli animali nella misura delle sue capacità e rapportate allo specifico contesto, eventualmente anche solo attivandosi per assicurare ogni specifica e adeguata assistenza”.
È pertanto onere del professionista decidere caso per caso come attivarsi, fermo restando che non potrà esimersi se da questo dipende la vita dell’animale.
A cura della Dott.ssa Paola Fossati